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Madre Teresa di Calcutta e Chiara Lubich: sorelle nell’amore a Gesù in croce

4 aprile 2008

Hans Urs von Balthasar pubblicava nel 1950 uno studio su santa Teresa di Lisieux e, nel 1953, uno su Elisabetta della Trinità, riuniti in un volume nel 1970 col titolo Schwestern im Geist, tradotto quattro anni dopo in italiano dalla Jaca Book. Il grande teologo svizzero voleva raffrontare le due straordinarie personalità mistiche del Carmelo della fine del secolo XIX: “Ambedue – scriveva – cercano di obbedire perfettamente alla propria missione, ma ciascuna delle due deve lasciarsi completare dal messaggio dell’altra. Esse si additano a vicenda, formano le due emisfere, che, messe insieme, costituiscono il mondo spirituale del Carmelo nella sua globalità” (H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spirito, Milano 1975 2, p.10). Quasi coetanee, Teresa era morta nel 1897 a ventiquattro anni, Elisabetta nel 1906, a ventisei.

Una profonda affinità spirituale

Un’affinità spirituale profonda unisce, ai tempi nostri, anche le figure di altre due grandi personalità della storia religiosa del secolo scorso, Madre Teresa di Calcutta e Chiara Lubich, anch’esse quasi coetanee: Gonxha Bojaxhiu, in religione Teresa per la devozione che aveva a santa Teresa di Gesù Bambino, nata nel 1910, morta a ottantasette anni nel 1997; Chiara Lubich, nata nel 1920, e, da poco meno di un mese, chiamata all’eternità, a ottantotto anni. Non si vuole certamente anticipare in alcun modo per quest’ultima il giudizio della Chiesa, ma credo che un loro raffronto spirituale possa essere di grande interesse. Anch’esse hanno corrisposto a fondo alla missione loro affidata dalla Volontà di Dio, come iniziatrici di un solco fondamentale di spiritualità e di azione nelle istituzioni, pur tanto diverse, da esse iniziate; e sono anch’esse complementari per il messaggio che trasmettono con tanta efficacia alla Chiesa del Terzo Millennio. Ed è l’amore a Gesù, assetato sulla Croce, abbandonato nella solitudine assoluta del Calvario per ricondurre gli uomini al Padre in un dono d’amore, incomprensibile fuori della logica di Dio. Nella Veglia pasquale scorsa, Papa Benedetto XVI ha dato un’interpretazione di singolare acutezza e profondità del passo di Ebrei, 13, 20: “Il Dio della pace ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore in virtù del sangue di un’alleanza eterna”. Spiegando il significato dell’acqua, elemento costitutivo della Liturgia del Battesimo insieme con quello della luce, egli ha detto tra l’altro: “Gesù è per noi disceso nelle acque oscure della morte. Ma in virtù del suo sangue, ci dice la Lettera agli Ebrei, è stato fatto tornare dalla morte: il suo amore si è unito a quello del Padre e così dalla profondità della morte Egli ha potuto salire alla vita. Ora eleva noi dalle acque della morte alla vita vera. Sì, è ciò che avviene nel Battesimo: Egli ci tira su verso di sé, ci attira dentro la vera vita. Ci conduce attraverso il mare spesso così oscuro della storia, nelle cui confusioni e pericoli non di rado siamo minacciati di sprofondare” (“L’Osservatore Romano”, 25-26 marzo 2008).
Madre Teresa e Chiara Lubich hanno fatto un’esperienza unica di unione con Cristo crocifisso; sono discese anch’esse “nelle acque oscure della morte” di Gesù, hanno in certo modo vissuto questa “profondità della morte” condividendo, in modo diverso ma complementare, la solitudine di Gesù abbandonato sulla croce.

La notte oscura della solitudine

Hanno provato la notte oscura della solitudine interiore e assoluta, che, dopo san Giovanni della Croce, si conosce come l’amara porzione riservata a chi si pone risolutamente sulla via della rinuncia per Cristo, e specialmente a chi arriva allo spogliamento totale della via mistica. È la sorte che tocca a chi si lascia afferrare da Dio senza porre resistenze; a cominciare dalla Vergine Maria, se pensiamo alle “notti oscure” delle sue ansie per la perdita di Gesù ragazzo al tempio, dei distacchi a cui la portava la sua condizione di Madre di Colui che l’aveva lasciata per donarsi a tutti, e del Calvario, dove stette in piedi sotto la Croce del Figlio. Pensiamo alle prove, alle oscurità, alle contraddizioni riservate a tanti santi nella storia della Chiesa, alle solitudini dei martiri, rinchiusi nelle loro celle oscure, o in preda a mani assassine. È la sorte normale dei santi. Per saperlo, basta anche solo un’infarinatura di teologia mistica, tanto che stupisce il rumore suscitato dalla pubblicazione degli “Scritti più intimi della “Santa di Calcutta””, nel bel libro di padre Brian Kolodiejchuk, che hanno fatto conoscere al grande pubblico le prove interiori della Madre Bojaxhiu (Madre Teresa. Sii la mia luce, Rizzoli, 2008; le citazioni seguenti sono prese di qui).
Decisamente, il “gran pubblico” non sa più che cosa sia una teologia mistica. Chiunque entri in una cappella di Suore Missionarie della Carità, fondate da Madre Teresa, vede scritto a caratteri cubitali, presso il tabernacolo dell’Eucaristia, o sotto una grande Croce, le parole di Gesù agonizzante: I thirst, Sitio: ho sete. Saziare la sete di Gesù in croce è stato il grande anelito di Teresa di Calcutta, lasciato come programma, da vivere alla lettera, alle sue Figlie. Infatti, il primo articolo delle Regole, dettate dalla Fondatrice, lo esprime chiaramente: “Il fine ultimo delle Missionarie della Carità è di saziare la sete di amore e di anime di Gesù Cristo sulla Croce attraverso la povertà assoluta, la castità angelica e l’obbedienza gioiosa delle Sorelle”. A quarantasei anni, nel novembre 1956, aveva scritto all’arcivescovo Périer: “Ho un solo desiderio: amare Dio come non è mai stato amato, di un amore profondo e personale. Nel mio cuore non sembra esserci nient’altro che Lui, nessun altro amore che il Suo: le strade, Kalighat, i bassifondi e le sorelle sono diventati luoghi in cui Egli vive appieno la sua vita d’amore. Per favore, Eccellenza, preghi per me, perché in me possa davvero esserci “solo Gesù”” (p. 176).
Eppure la notte accompagnava i passi della Madre nei suoi contatti con le miserie estreme, con i moribondi, con i bambini a cui donare un sorriso. Già a ventisette anni poteva scrivere al suo antico confessore, a Skopje: “Non pensi che la mia vita spirituale sia coperta di rose. Questo è il fiore che raramente trovo sul mio cammino. Al contrario più spesso ho per compagna l’oscurità. E quando la notte si fa molto fitta e mi sembra che andrò a finire all’Inferno, allora, semplicemente, offro me stessa a Gesù. Se vuole che ci vada, sono pronta, ma solo a condizione che veramente ciò lo renda felice. Ho bisogno di molta grazia, di molta della forza di Cristo per perseverare nella preghiera, in quell’amore cieco che conduce soltanto a Gesù crocifisso” (pp. 31s).
A trentasette anni, scrive all’arcivescovo di Calcutta, monsignor Périer, che la nuova vita le procurava in gran parte solo sofferenza; a quarantacinque, dice allo stesso: “Non so, ma nel mio cuore vi è una tale profonda solitudine da non poterla esprimere… Fino a quando Nostro Signore mi resterà lontano?” (p. 165).
Al gesuita padre Picachy, futuro arcivescovo di Calcutta e cardinale, scriveva nel 1962: “Spesso mi chiedo cosa possa ottenere Dio da me in questo stato. Niente fede, niente amore, nemmeno nei sentimenti… le tenebre sono così oscure e il dolore così straziante. Ma accetto qualsiasi cosa Lui dà e do qualsiasi cosa lui prende. Le persone dicono di essere attratte a Dio vedendo la mia salda fede. Questo non è ingannare la gente?” (p. 244). E a un altro religioso, nel 1976: ” È un bene che la Croce ci conduca al Calvario e non in un salotto. La Croce, il Calvario sono stati molto reali per un certo tempo. Adesso le offese non mi fanno più male… Le chiedo di dire a Gesù… di cambiare il mio cuore, di darmi il Suo Cuore, in modo da poterlo amare come Lui ama me” (pp. 283s).
Sono pagine scritte quando la sua fama aveva ormai conquistato il mondo, ed era invitata a parlare nelle sedi internazionali più prestigiose. Ma la solitudine la teneva immersa nelle tenebre, e solo il desiderio di saziare la sete di Cristo in croce le dava la forza di portare avanti la sua opera gigantesca, fino al declino della salute, fino alle infermità e alla morte.
Analoga fu l’esperienza di Chiara Lubich. Alle origini aveva avuto forti contrarietà anche da parte ecclesiastica, e l’esperienza di Gesù abbandonato divenne l’ansia costante di soffrire per Lui e per la Chiesa. Nel primo dei quattro volumi di Scritti spirituali (Città Nuova 1978), aveva raccolto questo pensiero: “Vorrei testimoniare al mondo che Gesù abbandonato ha riempito ogni vuoto, ha illuminato ogni tenebra, ha accompagnato ogni solitudine, ha annullato ogni dolore, ha cancellato ogni peccato” (Ib., p. 44). A ventitré anni aveva fatto la scoperta folgorante: “Dio è amore”, e questo l’aveva addentrata nell’intimità più profonda con Dio: “Perché Amore, Dio è Trinità”, come disse a un gruppo di vescovi, nel 1989. Dieci anni prima, ad altri vescovi, aveva confidato: “È la folgore, Dio mi ama immensamente, Dio mi ama immensamente. Da quel momento scorgo Dio presente dappertutto col suo amore: nelle mie giornate, nelle mie notti, nei miei slanci, nei miei propositi, negli avvenimenti gioiosi e confortanti, nelle situazioni tristi, scabrose, difficili” (cfr M. Cerini, Dio amore nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova 1991, passim).
Ma quella illuminazione fu accompagnata da una partecipazione sempre più profonda di Chiara all’abbandono di Gesù sulla croce, nel suo “grido” di morente inascoltato, in un’esperienza sempre più globale, di cui darà testimonianza nel libro appunto intitolato Il grido, Gesù crocifisso e abbandonato nella storia e nella vita del Movimento dei Focolari dalla sua nascita, nel 1943, all’alba del terzo millennio, Città Nuova 2000, ove scrisse: “Come un fiore completamente aperto, completamente spiegato, Gesù, dopo aver dato il proprio sangue, la propria morte naturale, dà anche… la propria morte spirituale, la propria morte divina, e dà Dio. Si svuota anche di Dio. E fa ciò nel momento dell’abbandono, quando grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Grido di Gesù che qualcuno, nel tempo, ha interpretato come se Egli ripetesse il Salmo 22 (21). Noi abbiamo sempre pensato che non è Gesù per il Salmo, ma il Salmo per Gesù… E il Santo Padre Giovanni Paolo II lo conferma: “Queste parole sull’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”” (Ib., p. 19). Il volumetto è un’ampia panoramica sul significato che la realtà di Gesù abbandonato ha preso nel Movimento, ma anche nelle varie spiritualità della Chiesa, nel movimento ecumenico, nella vita degli atei e dei non cristiani. La fondatrice dei Focolari non si sofferma sulle sue prove personali, se non sfiorandole con grande delicatezza, con parole che fanno capire la sua sofferenza: “E venne la notte. Terribile come sa solo chi la prova. Essa mi tolse tutto: Dio amore, come l’avevo conosciuto in quegli anni, la vita fisica e (quella) spirituale. Mi mancò la salute, nel modo più crudo, e mi mancò la pace… Capii in quei giorni come la carità fosse tutto: come la vita fosse amore. Mancandomi l’amore mi mancò la vita. Accettai come Dio sa, fra dolori inenarrabili, quest’oscurità in cui ormai più nulla aveva valore…” (Ib., pp. 59s). Ma in questa notte spaventosa doveva fiorire una delle più belle pagine di Chiara Lubich, scritta il 20 settembre 1949, e diffusa in una magnifica edizione. “Ho un solo Sposo sulla terra: Gesù crocifisso e abbandonato; non ho altro Dio fuori di Lui. In Lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’Umanità. Perciò il suo è mio e null’altro. E Suo è il Dolore universale e quindi mio. Andrò pel mondo cercandoLo in ogni attimo della mia vita” (Chiara Lubich, Ho un solo sposo sulla terra, Città Nuova 2000; cfr Scritti spirituali/1, cit., p. 45).

L’esperienza sconvolgente di due grandi donne

Sono spunti che traggo da alcune sue opere, come quelli presi dall’epistolario di Madre Teresa, auspicando che qualche teologo possa, come il von Balthasar, sviscerare nel suo senso più profondo e completo l’esperienza sconvolgente che quelle due grandi donne ebbero della solitudine di Gesù morente, assetato e abbandonato. Esse hanno capito, con valenza profetica per il nostro tempo, l’intima verità che Gesù sulla croce unisce alla propria Passione chi ne accolga la realtà sconvolgente ed esigente, perché Egli vuol continuare a salvarci dal peccato, nell’amore che ci riconcilia col Padre. Ed è la realtà che sostiene il mondo e che è patrimonio continuamente approfondito della fede di tutti i secoli. Basti riprendere una frase di sant’Ambrogio, dalla sua Esposizione del Vangelo secondo Luca: “Del resto Matteo scrive: Emise lo spirito, cioè per sua volontà, non per necessità. Perciò aggiunse: a gran voce. In ciò vi è la gloriosa confessione che Egli è giunto al punto estremo della morte per i nostri peccati… Matteo e Marco, i quali con maggiore dovizia hanno approfondito in Lui gli aspetti del comportamento umano, aggiunsero: Dio, Dio mio, guardami! Perché mi hai abbandonato?, affinché noi credessimo che l’aver preso su di sé la condizione umana significava per Cristo arrivare fino al punto di morire in croce” (X, 127.129; SAEMO, IX/II, Milano-Roma 1978, pp. 483, 487).
Madre Teresa e Chiara Lubich hanno capito a fondo questo amore, e si sono lasciate da esso divorare fino all’amarezza incomprensibile dell’oscurità, dell’abbandono, del silenzio, per far amare Cristo dall’uomo moderno, sgomento, dopo Auschwitz, davanti al dolore nel mondo.

di Cardinale Giovanni Coppa

su “L’Osservatore Romano” del  3/4 aprile 2008

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